venerdì 14 agosto 2009

Ich Bin Ein Berliner




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È notte fuori, così notte che l'interno delle stanze di fronte alla mia si vede benissimo, macchie di luce su un fondo nero senza profondità alcuna. Qui dentro sono al sicuro, almeno fino all'alba, l'appartamento è protetto, se si sa non badare ai rumori e non farsi ipnotizzare da essi. Ho sentito di gente che è stata attirata fuori da un battito che sembrava provenire dalle pareti, dal pavimento; attirati inesorabilmente verso la porta, indotti a girare la chiave nella toppa, uscire e poi sparire nella debole luce artificiale della tromba delle scale, sotto gli occhi atterriti dei coinquilini. Mai più tornati, dicono.
Ma qui no, qui sono al sicuro, ho la musica negli auricolari, la musica giusta, sono protetto dai suoni, sono immune. Spero.
Ora che non devo scappare per un po' posso finalmente rilassarmi.





La città è tutta di metallo, palazzi di metallo, i ponti sono di metallo, i treni sono di metallo, l'asfalto è di metallo sotto ai miei piedi, posso sentire il rimbombo dei passi come se camminassi su una lastra d'acciaio - devo fare piano per non oscillare troppo - una lastra percossa vibra come la pelle di un tamburo dai bordi liberi, creando delle conformazioni nodali caratteristiche che hanno la stessa varietà dei fiocchi di neve: disegni complessi dalle geometrie sacrali, che solo un sottile velo di sabbia riesce a svelare, come illustrò Chladni all'Imperatore[1]. Nel passare da 1 a 2 dimensioni la complessità dei nodi aumenta smodatamente; da 2 a 3 dimensioni la complessità diventa spaventosa; in 4 dimensioni la complessità è inimmaginabile, decisamente fuori dalla portata della nostra mente, mi dicono. Onde gravitazionali percuotono lo spaziotempo quadridimensionale attorno a me mettendolo in vibrazione, ma io ne sono cieco, sordo; una setta di schizzati con base in un Medioriente non meglio identificato e dai contorni favolistici sostiene che i nodi delle vibrazioni quadridimensionali siano particolari vie dello spaziotempo che portano a luoghi e istanti mai esplorati, invisibili alla mente umana. Occorre, sostengono, una sostanza particolare che apra la mente all'ingresso di una nuova dimensione in modo da vederle: la chiamano "la sabbia" appunto, ma pare che sia introvabile perchè a differenza delle altre droghe chi la vende non può anche assumerla, pena il desiderio di prendere le vie che si aprono davanti a lui; tutti gli spacciatori caduti in tentazione spariscono nel nulla, non li si vede più in giro.


Prendo la boccetta trasparente, sembra quella di un profumo antiquato. Ne è rimasto poco, ma è ancora abbastanza per farci un giro. Sono fortunato, è ancora abbastanza, magari oggi è il mio giorno fortunato. Preparo il bicchiere, ne devo lavare uno, sono tutti incrostati perchè non li uso mai. Poi ci vuole il cucchiaio da appoggiare sopra; mi accorgo che è un'idea stupida, non ho cucchiai bucati ovviamente, meglio una forchetta, una forchetta andrà benissimo. Apro la boccetta con estrema attenzione, lentamente, come se l'essenza potesse scappare se la aprissi troppo in fretta.
Ho trovato la bottiglietta in una bottega di assenzio, una bottega vecchia, rivestita di legno e bottiglie, piena di bottiglie, bottiglie come pezzi di scacchi disposte sulla gigantesca scacchiera che è la parete, a giocare una partita enorme con milizie arruolate in ogni parte del mondo, un massacro, un'ecatombe alcolica. Cercavo dell'assenzio per le sue millantate qualità, cercavo ispirazione letteraria, estro creativo imbottigliato; volevo farmi qualcosa di forte. Non sono un habituè, non so scegliere la qualità migliore, mi possono vendere di tutto, vado ad occhio guardando la bottiglia, la bottiglia mi deve piacere, deve essere bella. Non so se esiste una qualità che ti aiuta a scrivere gialli, una che ti aiuti a comporre poesie, una che ti faccia scrivere biografie; probabilmente sono tutte cazzate che si è inventato Baudelaire, e che io non ho mai letto approfonditamente. Ma ero nel negozio, ormai volevo del cazzo di assenzio. Peccato che non ci fosse nessuno in quel momento, non uno stramaledetto negoziante dietro il bancone, solo bottiglie, bottiglie pezzi di scacchi, bottiglie alfieri, pedoni, regine, e io non sapevo che cazzo di mossa fare. Ho scelto una bella bottiglia, e mi sono messo a cercare il proprietario - volevo andarmene senza pagare - ho guardato dietro un angolo, c'erano solo scaffali di bottiglie impolverate, ma più belle della mia, bottiglie impolverate con al collo bigliettini in un corsivo esagerato che mi impediva persino di capire in quale lingua fossero scritti. Ne ho presa una, ho messo la mia al suo posto, le ho messo il cartellino, l'ho nascosta dietro ad altre, sono uscito di fretta, non ho incontrato nessuno, avevo la bottiglia, la bottiglia bellissima, avevo l'assenzio.
Ma non è assenzio. Sarò un neofita ma almeno il gusto lo so riconoscere. Non è assenzio. È meglio. Ed è mio. Soltanto mio.
Non lo riavranno.


La città è di metallo, la mia bocca sa di metallo, sangue metallico, anche le pareti sono di metallo; cammino rasente al muro - la città è il muro - seguo il muro, il muro è mio amico, svolto seguendo il mio amico, si dipana come le circonvoluzioni in un cervello - la città è un cervello vibrante di metallo - tengo la mano posata sul muro, così non perdo il contatto - il muro è tutto, se lui cade io sparisco con lui - la mano posata sul muro, è il miglior modo per uscire da un labirinto connesso mi dicono, basta seguire il muro - la città è un labirinto, non so dove vi sono entrato, non mi ero accorto di essere in un labirinto, ora devo solo evitare il mostro e sono fuori, non mi serve altro, solo evitare, evitare.
Svolto seguendo il muro, le luci sostituiscono le strade, cammino aggrappandomi a loro; sanno che sto poco bene, che devo riposarmi, è la loro carta, il loro asso nella manica, ora possono avermi, sono vulnerabile.


Capito in un bar affollato, sono seduto, prima ero in piedi, ora sono seduto, non so com'è capitato; una cameriera ci chiede cosa vogliamo in tedesco, non parla inglese, capiamo che non è programmata per farlo; la cameriera cibernetica ci porta i drink, me lo porta giusto, credevo di averlo solo pensato, dev'essere telepatica, si, per quello non serve l'inglese.
Riconosco la sua natura meccanica, se tendo l'orecchio riesco a sentire il cigolare delle sue sospensioni mentre ancheggia tra i tavoli. Ha gli occhi spietatamente artificiali mi dico.
Le sospensioni delle anche sono difficili da realizzare, mi spiega un ingegnere di qui, il movimento ha un alto grado di libertà, è il punto più snodabile del corpo, è difficile farli camminare come esseri umani, come noi dice; me ne ero accorto anch'io, gli dico, anche se non ho una laurea in robotica, ormai li avverto a pelle (ormai?); mi guardo attorno, è pieno di facce aliene, esseri dalla pelle scarsa, che non copre tutto il corpo: il mercato sotterraneo è più fertile che mai, è pericoloso camminare per certe strade, lo sento dire dietro di me. È una minaccia, mi minacciano, sono umano io, in questo bar di creature eterogenee.
La cameriera ci porta la torre del narghilè - shisha, nel paleodialetto locale - non l'avevo ordinato, o forse si, cosa importa, quando ho smesso di scegliere io e hanno cominciato a farlo loro? Attorno a me le facce aliene aspirano concitate i loro fumi industriali, è roba locale sento dire, roba che piace alle macchine o a chi per loro - le loro narici fumano come prefabbricati in fiamme, il fumo addensa l'aria, prima non c'era mi dico, forse sbaglio, non faccio altro da quando sono qui, è solo questione di tempo, oppure di ritmo.
Il fumo ha un sapore strano - è strano, mi dico, sa di strano, lo sento bene - qualcuno ha messo qualcosa nel mio fumo, lo sento - mi viene da tossire, io non tossisco di solito, giuro, siete voi che mi avete fatto tossire, è questo fumo che mi avete dato che mi fa tossire dico, mi gira la testa, non sono io, dovete credermi, questo non sono io.


Milioni di api volano ogni giorno dagli alveari ai fiori, percorrendo ogni volta una traiettoria leggermente diversa, tentando la scalata dal numerabile all'innumerabile. Milioni che poi sono miliardi, forse le api sono miliardi si, più degli indiani, che sono un miliardo; c'è un'ape per ogni indiano, probabilmente più di una; tecnicamente ogni indiano potrebbe essere punto da un'ape contemporaneamente, l'India collasserebbe per qualche istante, e resterebbero ancora abbastanza api per avvelenare anche la Cina. Perchè quando un'ape punge qualcuno, gli lascia il pungiglione conficcato, e così poco dopo l'ape muore: al pungiglione restano attaccati alcuni organi interni dell'ape, precedentemente contenuti nell'addome. Il pungiglione dell'ape è una struttura evoluta specificamente per colpire i mammiferi, solo e soltanto i mammiferi, in quanto contro gli altri insetti è totalmente inefficace; all'estremità del pungiglione sono presenti 9 microscopici aghi rivolti all'indietro, 9 piccoli arpioni che si aggrappano alla carne molle, che penetrano in profondità lacerando i tessuti, per permettere all'arma di stillare tutto il veleno, senza perderne una sola goccia. Il veleno si ottiene da due ghiandole, una acida e una alcalina: al momento della puntura il contenuto delle due ghiandole viene miscelato, una sintesi chimica di opposti la cui invenzione si perde nell'alba dei tempi; la fusione di due elementi antagonisti, antica e più primitiva forma di alchimia, lo ying e lo yang, la vita e la morte, luce e buio, sonno e veglia.
Lasciando il suo pungiglione l'ape tenta di lasciare sè stessa nel corpo della vittima, di prenderne possesso con un rito atavico, per continuare la scalata all'innumerabile. Dicono che sia successo rare volte nel corso della storia, e sempre per poco tempo. Ma le api ci sperano ancora.


Alzo il coperchio del braciere, forse basta ravvivarlo, forse è tutta una finta, non c'è niente nel mio fumo, invece no, non ci sono braci, è carne quella, carne morta che brucia; lascia un fumo nero, chissà a quale schifo di creatura l'hanno asportata, non voglio sapere. Ho orrore, mi viene da vomitare, magari era uno come me, magari sono io - mi controllo gli arti per assicurarmi che non sia così: ci sono tutti. Progetto la fuga, so di essere visto - mi guardo attorno, sembra che tutti stiano fumando me - smettetela, i miei fumi mi danno alla testa - devo scappare, ma tutti sono lì, pronti per l'agguato, pronti per un mio passo falso, devo scappare, devo aspettare il momento giusto.


Sono davanti alla porta del mio alloggio.
Salgo le scale di legno; scricchiolano, lanciano l'allarme ad ogni passo, i gradini sono dei loro merdosi agenti. L'aria non è vuota, c'è un ronzio nell'aria, no ecco si amplia, ora ha un ritmo, è come un battito - il battito di un animale meccanico - è una stazione sferragliante, un treno in corsa - è nella mia testa, ma riempie l'aria - la testa si apre all'aria, con dolore - questa musica siderurgica non cessa più - capisco che sono interferenze, interferenze neurali, a volte succede dove ci sono tanti cervelli paranoici, a volte succede e questa non è nemmeno la prima volta mi dico.
Ogni pianerottolo ha due porte affacciate, la sinistra ha un numero sopra, la destra è speculare ma non ha nessun numero, e dallo spioncino non viene mai luce. Le porte destre non si vedono mai aperte, neppure dallo spioncino si vede qualcosa; solo quando tutti gli ospiti sono rientrati nelle loro stanze sinistre la notte si può sentire un chiavistello scattare, dei passi pesanti elettrificare l'aria, dei vaghi respiri, ma se giri la chiave immediatamente il chiavistello schiocca di nuovo e i rumori cessano improvvisamente.


Sono scappato, forse sono riuscito ad essere furtivo, forse ho qualche minuto di tregua, qualche minuto per barcollare. Mi riverso nel fiume di metallo, mi lascio trasportare dalla corrente solida, rosso-verde, rosso-verde, rosso-verde, questa strada è un cerchio, torna tutto uguale con periodo 2, devo lasciarmi trasportare mi ripeto, solo e soltanto trasportare.
Le luci sono dappertutto, sulle insegne, sui pali, sulle auto, sui tram, sui semafori, sulle pareti, per terra, mi inseguono, sono dietro di me, sono anche davanti, mi braccano; si riflettono moltiplicate per mille nei cocci di bottiglie in frantumi che lastricano la strada, sono i cocci che li rafforzano probabilmente, forse dovrei sbarazzarmi di quelli prima, ma è impossibile, sono veramente tanti, troppi.
Il metodo funziona, ecco un posto nuovo - nuovo per i miei occhi ubriachi di neon - è una stazione, una stazione spaziale, una sosta tra viaggi nel nulla, puro nulla interstellare - come una costellazione si chiama, Cassiopeia. Cassiopeia è una costellazione settentrionale, ma è visibile in parte anche da quello australe; assume la forma di una W o di una M a seconda del periodo dell'anno, per ribadire la sua natura multipla, e prende il nome da Cassiopea, regina etiope sposa di Cefeo. Essendo vicina alla Stella Polare - molti qui vengono da lì - è visibile tutta la notte; come lei il Cassiopeia resta aperto fino al mattino. Gli Arabi, secoli fa, diedero nomi alle stelle che la compongono: alla più luminosa diedero nome Caph, "mano macchiata" - macchiata di sangue, penso io; un'altra venne chiamata Shedar, e indica il seno di Cassiopea; poi vennero Ruchbah, Segin, e così via. Sono nomi che risalgono a un periodo in cui gli Arabi colonizzavano anche le stelle.
La porta del locale è minuscola, ho paura di non passarci; qualcuno ha la chiave però, la chiave con cui riusciamo ad entrare, riusciamo a passare. Una passerella traballante porta al nucleo del Cassiopeia, uno per volta, come esploratori sulle Ande, solo molto più in alto, su nel cielo. La passerella vibra, anzi, tutto vibra, segno che abbiamo oltrepassato la prima barriera del suono, le vibrazioni si impossessano di noi, ci entrano dentro e ci dettano il respiro, se quelle si fermano noi moriamo soffocati, se ci dicono di iperventilare noi iperventiliamo fino alla morte.


Poso la forchetta sopra al bicchiere cercando di farla stare in equilibrio, mi cade; mi cade ancora, è una forchetta di merda che non fa che agitarmi, e agitarsi è male, se mi agito perdo la concentrazione, se perdo la concentrazione sono vulnerabile ai suoni, se perdo la concentrazione perdo tutto; il problema è il manico pesante mi dico, basta metterci qualcosa sotto penso, magari la boccetta stessa, perché ci sta, è fatta apposta per starci, magari è un caso ma secondo me è fatta apposta. Sistemo delicatamente la zolletta di zucchero sopra alla forchetta e comincio a gocciolarci sopra dell'acqua presa da una tazza, lo faccio con il dito, lo intingo e poi lo lascio stillare teso sopra la zolletta, l'imporante è che scenda una goccia alla volta, una alla volta, senza perderne una sola goccia. Preparo questa sostanza come si fa con l'assenzio, lo so che non è assenzio, ma io la preparo come se lo fosse, perchè l'ho comprata in una bottega di assenzio, e se non è assenzio non importa, l'importante è l'effetto, e l'effetto c'è, l'effetto c'è eccome. Ho inventato un nuovo modo di assumere questa sostanza mi dico, qualunque essa sia, in questo momento non ha importanza, domani ne avrà, domani quando sarà finita ne avrà eccome di importanza, ma ora è tutto ok, io sono ok, le gocce sono ok, lo zucchero che si scioglie è ok; un angolino della zolletta collassa su se stesso, è bello vedere il disfacimento e assumerne, edifici crollano in tutta la città come carcasse putrefatte che erano sorrette solo dal rigor mortis, nuovi edifici si cibano del loro cemento e delle loro rovine per crescere alti e senza finestre, sempre più grossi, sempre più invulnerabili. Vorrei essere uno di loro.


Qui c'è gente, è pieno di gente, non ce n'è uno che sia umano al 100%, solo meticci, schifosi meticci di razze aliene o alienate, tempio della commistione e della corruzione fisica. O forse è la mia vista annebbiata dal fumo, il fumo che mi corrode la visione, o è la mia corruzione che si riflette sulla visione, oppure non lo so, il fumo mi sta facendo sparare cazzate - stronzi, che merda mi avete messo nel fumo - tra un po' comincerò a non essere cosciente di quello che faccio, almeno credo, non so più niente, non voglio sapere più niente.
Questo posto è sinistro, sembra un carcere, dico davvero, è circondato di mura, ci sono cancelli-valvole, c'è una grossa torre coi fari sopra, una torre di guardia forse, e una guardiola corre dappertutto lungo il muro, il muro che ci circonda, il muro che ci protegge e ci impedisce di uscire. Chissà quanta gente è morta qua, quante mani macchiate in Cassiopeia.
Ripensandoci, il locale è grande, ha tante stanze che si dipanano come organi illuminati da neon bluastri, oppure rosa, arterie di gente entrano nelle stanze e gli donano il loro ossigeno ballando, vene stanche escono e tornano ad abbeverarsi, il ciclo è continuo, la gente attorno a me sembra incapace di fermarsi, vorrei vedere qualcuno nelle mie condizioni, mi darebbe sicurezza, giusto un po' di sicurezza. Entro in una stanza che ha una valvola di tessuto sulla porta, vengo fatto passare per un globulo rosso, i leucociti tedeschi non si accorgono di me, sono come un virus efficace; questo posto mi ricorda l'interno del corpo, del mio corpo, è tutto rossiccio o bluastro a seconda del flusso di gente, se entra o se esce, è proprio un corpo, un grosso corpo, è il mio corpo; il pensiero mi fa paura, presto cominceranno ad arrivare i granuli di fumo che ho aspirato e ne prenderanno possesso, dovrò scappare, sarò costretto a scappare dal mio corpo. Forse è giusto così, forse sono davvero io il virus, forse mi devo eliminare da solo per sanare il mio corpo; rigetto l'idea in un momento di lucidità, è il fumo che pensa, è la carne nera, da me è già arrivato, qui dentro chissà.
Entro nella stanza che ha una valvola di tessuto sulla porta, vengo investito da un battito pesante e ritmato, vibra tutto, le mie orecchie si allontanano e si avvicinano tra di loro, il beat è potente, la gente balla, capisco di trovarmi nel cuore, la pressione mi spara in un altra stanza, ancora il battito possente, TUN, TUN, TUN; e via ancora in un'altra stanza, spero non si accorgano che non ho ossigeno, ma mentre ci penso ancora dei battiti, ancora un altro cuore; questo enorme corpo ha molti cuori, ne ho contati almeno 4, uno l'ho visto entrando, d'altronde è naturale, essendo così grosso ci vogliono dei ripetitori, altri cuori insomma, e noi ci droghiamo di battiti, i cuori ci trattano come vogliono, ci stampano un elettrocardiogramma sulla mano e poi via, con la mano macchiata.
Quando sono all'aperto cerco una sedia per appoggiarmi, non so se posso reggere ancora, devo cercare di raggiungere l'appartamento, se ce la faccio ho vinto io per stasera, domani se ne riparla, ma stasera avrò vinto io, anche se il domani è già cominciato con la mezzanotte, oppure comincia dall'alba, fate voi; sento gente attorno a me parlare, capisco poche parole, parlano un melting pot di lingue, alcune orribili mi dico; capisco che parlano di qualcuno, qualcuno che c'è nel locale, dicono che qualcun'altro lo sta cercando, che ha quello che vuole, che ha "the sand / he's got the sand", merda, a che cazzo si riferiscono? se c'è qualcuno che ha la sabbia qui dentro io la voglio provare, devo trovarlo prima che lo trovino loro, o prima che questo pusher se la faccia per conto suo e sparisca per sempre, ha i minuti contati penso, io non resisterei, quindi ha i minuti contati anche lui: lo devo trovare. Mi rimetto subito in circolo, inganno ancora i leucociti, questa mia invisibilità mi galvanizza, il fumo mi fa meno male addosso, ora ho uno scopo, trovare la sabbia, allora esiste davvero, non sono cazzate; mi rendo conto che la mia ricerca è difficile, come faccio a riconoscerlo? la varietà inumana di questo posto rende solo le cose più difficili, la gente mi balla addosso e io la spingo via feroce, siete tutti ostacoli; poi sento delle voci in fondo a uno dei tanti cuori in cui mi trovo, c'è gente strana, si muove insieme, stanno cercando qualcuno, cazzocazzocazzo sono arrivati, lo troveranno prima loro, sono più di me, magari sanno che faccia ha, farà meglio a svignarsela: si, forse è questo che sta facendo, se la sta svignando - ma giusto! - allora devo farlo anche io se voglio trovarlo, da che cazzo di parte è l'uscita? me ne basta una qualsiasi, anche un poro, uno sfintere di questo maledetto corpo, devo farmi rigettare, schizzare fuori come da una ferita. Però quelli sono furbi, stanno andando nella mia stessa direzione, vengono proprio verso di me, hanno capito anche loro che il tipo starà scappando, devo correre più veloce di loro altrimenti l'ho perso, altrimenti quello è perso, mi sembra di stare andando a salvarlo, invece voglio solo la sua roba.


Giungo finalmente alla porta della mia stanza, la mia scalata è terminata, ora basta la chiave, la chiave che apra tutte le porte, quelle visibili e invisibili; ha un pendaglio pesante, lo devo tenere fermo con la mano mentre giro la chiave nella serratura altrimenti sbatte rumorosamente sulla porta svegliando tutti, anche quelli che non devono essere risvegliati, soprattutto loro. La chiave scherza con me, mi tratta come una bestia, mi prende a calci, fa finta di incastrarsi, gira a vuoto, mi fa maledire e bestemmiare sottovoce, mi mette alla prova; quando supero la prova mi premia, mi dà la zolletta di zucchero che mi merito, come ai cavalli, sono stato una brava bestia, mi premia con il clack e la porta si schiude.
Finalmente sono nel mio appartamento. Fuori dalla finestra si vedono le altre finestre dello stabile, alcune illuminate di riflesso dalla mia, altre illuminate di per sè, ogni tanto mandano il flash di qualche persona che ci passa davanti. Mi riesce difficile immaginare che vivano altre persone oltre a me nello stabile, preferisco immaginare che quelle finestre siano schermi televisivi che trasmettono canali in tutte le lingue possibili, così la probabilità di trovarne uno in una lingua comprensibile è bassissima.
Ormai sono al sicuro, sono nel mio appartamento, e l'appartamento è sicuro, almeno fino all'alba; mi inserisco gli auricolari a fondo e ci inietto dentro la musica, devo stare attento ai rumori, non devo lasciarmi ipnotizzare, posso perdere tutto quello che ho. Ora che sono nel mio nido posso riposarmi, non devo più scappare per un po', posso finalmente rilassarmi.
Prendo la boccetta trasparente. Sono fortunato, ne è rimasto ancora abbastanza, ancora per un giro. È il mio giorno fortunato oggi.




[1] Ernst F. F. Chladni (1756 - 1827), tedesco, fisico delle onde, illustrò a Napoleone il formarsi di incredibili disegni su una lastra di metallo cosparsa di sabbia e messa in vibrazione da un archetto di violino; negli anni a venire nacquero svariate confessioni attorno alla spiritualità che emanava il fenomeno.


Si ringrazia Ila in quanto correttrice di bozze (sentirlo pronunciare da lei è un'altra storia)

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